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MAURIZIO BIAGINI / GRANDE LOVE

 

La Fornaciai Art Gallery dedica gli spazi della galleria alla presentazione delle opere di Maurizio Biagini, pittore livornese scomparso nel luglio del 2022. Il nucleo di opere esposte rappresentano il lavoro dell'artista tra il 2015 e il 2020. 

TESTO CRITICO

CAPITOLO 1 – LA POETICA DELLO SPAZIO E IL TEMPO DELLA VISIONE

 

“L’arte è il luogo dove il tempo e lo spazio si incontrano, diventando visibili nei gesti e nei segni.” – Yves Klein

Analizzare la pittura di Maurizio Biagini significa affrontare la storia di un artista nel senso puro del termine, un uomo precocemente scomparso che ha dedicato la propria vita all’arte. Il suo lavoro si è collocato in una dimensione in cui la realtà non è semplicemente rappresentata, ma interrogata, decostruita e riformulata secondo un codice visivo personale.

Il suo linguaggio pittorico, nutrito di tensioni materiche e architetture inquiete, si è mosso tra costruzione e dissoluzione, tra la persistenza dell’immagine e la sua frammentazione.

Il suo sguardo sulla città e sul paesaggio non è stato quello di un documentarista né di un evocatore nostalgico, bensì quello
di un esploratore della percezione, capace di restituire sulla tela la dialettica tra stabilità e precarietà, tra geometria e caos.
L’architettura, nella sua opera, è stata una presenza costante, ma non intesa come mera rappresentazione del costruito: piuttosto, essa
è diventata un palinsesto in cui il tempo si è depositato e si è stratificato. Se pensiamo al rapporto tra pittura e architettura nel Novecento, possiamo trovare corrispondenze con le atmosfere sospese di Mario Sironi e con la monumentalità introversa di un De Chirico meno metafisico e più urbano. Tuttavia, Biagini non ha ricercato una narrazione simbolica o psicologica, ma un linguaggio più legato alla sostanza pittorica stessa, a una materia che si è increspata, si è addensata, si è spezzata.
Guardando i suoi lavori, le sue carte, le sue tele stratificate e distrattamente organizzate, appare un profondo legame con il linguaggio pittorico di Tano Festa, autore con cui ha condiviso, 
con tempi e proporzioni diverse, un’attenzione particolare per l’architettura urbana, una capacità di far parlare il colore, di stratificarlo fino a renderlo molto più di un elemento pittorico e un’abilità di scomporre la realtà per poi ricomporla in chiave pop.
Il lavoro di Biagini ha richiamato anche la sensibilità fenomenologica di un Christian Norberg-Schulz, per il quale l’architettura è un’esperienza esistenziale, ma vi si sono potute scorgere anche tracce di ricerche pittoriche più di nicchia, come quelle di Filippo De Pisis, che ha lavorato sulla fragilità della forma, o di Mario Lattes, con il suo lirismo stratificato. L’uso del colore in Biagini, talvolta denso e terroso, altre volte livido e contrastato, ha suggerito una riflessione sul tempo della materia, sulla superficie pittorica intesa non come specchio del reale, ma come campo di tensioni. La sua estetica, che in certi passaggi ha richiamato la lezione dell’Espressionismo astratto, si è nutrita anche di una sensibilità affine alle ricerche optical e cinetiche: pur senza abbracciare la sistematicità scientifica del Gruppo T, il suo trattamento delle superfici ha generato vibrazioni visive, campi di energia che hanno destabilizzato la staticità della forma. In questo, si potrebbe tracciare un parallelo con la musica contemporanea:
il suo approccio alla composizione visiva, fatto di stratificazioni e frammentazioni, ha trovato un’eco nelle polifonie liquide di György Ligeti
o nei minimalismi di Steve Reich, dove la ripetizione e la variazione continua creano una struttura in perenne ridefinizione.
L’opera di Biagini si è configurata dunque come un’esperienza di attraversamento: la superficie del dipinto non è mai stata un punto d’arrivo, ma una soglia, un luogo di transizione tra il visibile e l’invisibile, tra il costruito e il dissolto, tra il tempo della pittura e il tempo della visione.

 

CAPITOLO 2 – MATERIA E STRUTTURA: TRA ASTRAZIONE E REALTÀ

 

“La materia non è mai inerte, ma vive e si trasforma, proprio come il tempo e lo spazio in un’opera d’arte.” – Anselm Kiefer

Il lavoro di Maurizio Biagini si è collocato in una zona di tensione tra astrazione e figurazione,
tra decifrabilità dell’immagine e dissoluzione della forma. L’architettura e il paesaggio urbano non sono stati per lui meri soggetti, ma piuttosto pretesti per una riflessione più profonda sulla sostanza stessa della pittura, sulla costruzione dello spazio e sulla percezione della materia.

Il suo approccio alla superficie pittorica, denso di sovrapposizioni, screpolature, velature e colature, ha richiamato la tradizione della pittura materica novecentesca, ma con un’accezione più analitica e strutturale. Più incline alla costruzione razionale dello spazio, il suo lavoro potrebbe essere accostato a esperienze meno note del secondo Novecento, come quelle di Vasco Bendini, con

la sua pittura stratificata e quasi geologica, o di Sergio Romiti, in cui la griglia geometrica si è caricata di vibrazioni luministiche.

Se Biagini ha accolto la lezione dell’astrazione materica e geometrica, non ha mai
rinunciato alla dimensione dello spazio come luogo di esperienza. Il suo interesse per l’architettura, più che ricalcare una prospettiva razionalista, sembra piuttosto essersi mosso in una direzione fenomenologica, vicina agli studi di Kevin Lynch sulla percezione urbana o alle ricerche di Gordon Matta-Clark. Le sue città,

le sue architetture, sono stati frammenti di un’esperienza visiva non lineare, dove la materia si è stratificata come il tempo su un muro consumato dagli agenti atmosferici.
Dal punto di vista compositivo, le sue opere sono oscillate tra un’impostazione di impianto costruttivo e una tensione centrifuga della forma. In alcune composizioni, si sono potuti scorgere echi delle ricerche costruttiviste di Kazimir Malevič o delle astrazioni architettoniche
di El Lissitzky, ma reinterpretate attraverso una sensibilità contemporanea, che non ha rinunciato al dato atmosferico e materico.

 

CAPITOLO 3 – L’ECO DELLA CONTEMPORANEITÀ: SEGNI DEL PRESENTE, TRACCE DEL PASSATO

 

“Il presente non è mai puro, ma è sempre intriso di ciò che è stato e di ciò che sarà.”
– Henri Bergson

Nell’orizzonte della pittura contemporanea, il talento di Biagini si è distinto per la capacità di dialogare con il presente senza cedere alle derive effimere della sperimentazione fine a sé stessa. La sua opera si è collocata in una linea di ricerca che potremmo definire “postmodernismo materico”, in cui la riflessione sulla superficie pittorica non si è esaurita nella pura gestualità, ma si è arricchita di una stratificazione culturale e concettuale.
La sua sensibilità materica ha trovato affinità con artisti meno noti ma significativi, come José 
Manuel Ballester, che ha indagato il vuoto e la sospensione nelle architetture abbandonate, o Carlos Bunga, le cui installazioni pittoriche esplorano la transitorietà degli spazi costruiti. Ma a differenza di questi autori, Biagini è rimasto fedele alla pittura come campo di esperienza sensibile, evitando ogni deriva documentaria.

La sua arte si è imposta come una riflessione sulla resistenza dell’immagine, sulla capacità della materia pittorica di contenere il tempo e lo spazio, di essere al contempo concreta

e simbolica. Il suo è stato un linguaggio che, pur radicato nella tradizione, è stato profondamente moderno: non una ripetizione del passato, ma un dialogo ininterrotto

con il presente.

Mirco Giarrè

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